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Domo 3 – REMUNIDA DE IMPRENTA DAE SU 1995 – CASA COMUNE

DIBATTITO:  Apriamo un confronto a più voci sui progetti politici del “sardismo diffuso”


«Quel partito che non c’è»

Tra la Casa comune dei sardi e la Rinascita fallita

Alcuni giorni fa un giornale isolano titolava la prima pagina annunciando che Dini ed il suo Governo promettevano ai sardi la restituzione di parte di ciò che loro era dovuto con una frase ad effetto: «Onoreremo il debito».

Il debito è quello contrato con l’isola circa due anni e mezzo fa, i 730 miliardi per la Rinascita della Sardegna centrale, e quello insoluto da un pezzo, il rimborso sull’Irpef di oltre 1000 miliardi maturato negli ultimi dieci anni. Un bel risultato se non si riflette sul fatto che la Sardegna, da questo stato fiscalista e debitore insieme, vanta crediti ben più ampi. Crediti cinquantennali ai quali mai è stato fatto onore, ed ai quali si è sempre data una risposta episodica in momenti di particolari crisi, facendo sempre la cresta su ciò che si doveva restituire, con una politica elemosiniera e stracciona che desse, alle segreterie dei partiti italiani in Sardegna, l’occasione di montare campagne sull’utilità della cosiddetta “unità nazionale” e continuasse ad assicurare consenso ad uno Stato che resta estraneo ai nostri bisogni e nemico degli interessi dei sardi. Dico questo non certo per assolvere le gravissime responsabilità di una pavida e telecomandata giunta regionale che non riesce, anche perché dilaniata da troppi interessi, a spendere neanche il trenta per cento dei capitali di cui dispone ma perché dobbiamo prendere atto che la Sardegna è a tutti gli effetti terzo mondo. Lo è non per ragioni di Dna ma per le condizioni generali del sistema e per le gravissime responsabilità delle sue classi dirigenti.

Ecco allora che mentre il sistema Italia riesce rapidamente ad inserirsi nella ripresa dell’economia internazionale, vede la sua produzione aumentare e la disoccupazione diminuire sensibilmente, per la nostra terra, una volta assolto il compito di colonia dissanguandosi e ponendosi fuori dalla via dello sviluppo, non resta che un futuro di dipendenza, di assistenzialismo e di miseria.

Dall’Unità ad oggi il nord Italia è cresciuto economicamente perché lo Stato ha garantito tutte le risorse, in termini di capitali ed uomini, fossero drenate dal sud al triangolo industriale costituendo un sistema squilibrato che ha in sé la madrepatria e la colonia. Quando prevedemmo che, per la Sardegna, un futuro di disastrosa continuità con un passato di rapina finanziaria, avrebbe seguito al crollo del sistema del potere democristiano-socialista ed all’avanzata del nordismo, capimmo che la nascita di un movimento per l’uscita dalla dipendenza coloniale era la condizione indispensabile perché il nostro popolo, con le sue tradizioni, la sua storia millenaria e la sua identità nazionale potesse ottenere i propri diritti. Questa consapevolezza che proprio nell’autogoverno stanno le risposte ai problemi, ci portò a definire il progetto della Casa Comune dei Sardi. Si trattava di superare inutili steccati per ricostruire l’unità del nostro popolo che il colonialismo aveva disgregato. Dare un deciso segnale a tutti i sardi che avevano perso il senso di casa. Costruire fiducia e speranza per coloro che pensano d’esser stati inghiottiti e digeriti da società più ampie e che, considerando un destino ineluttabile quello d’essere subalterni, non s’accorgono che il peggio deve ancora venire perché più cresce l’internazionalizzazione delle economie degli stati-nazione e più sarà dannosa l’odierna subalternità politica. Senza soggettività politica internazionale la Sardegna sarà sempre più relegata in area di marginalità, vivrà la catastrofe della dipendenza e del sottosviluppo e vedrà decadere persino le potenzialità che gli verrebbero dal suo essere Isola, non più isolata ma centro di relazioni mediterranee ed europee.

Dovremmo avere il coraggio di stare nel gioco del mondo, di osservare l’enorme gamma di colori che compongono l’arcobaleno quando questo sorge dalle terre del pianeta, e non appiattirci sugli eterni grigiori delle aree metropolitane che opprimono persino le acide pozzanghere romane e milanesi. Dovremmo avere il coraggio di ritornare di nuovo a casa per trovare le radici di una nuova e moderna prosperità. Dove la disoccupazione non devasti più la nostra gente, dove l’eredità culturale non sia cancellata dalle sole logiche di guadagno, dove il peggiore affarismo metropolitano non continui ad uccidere le nostre menti.

La nostra casa è il posto comune a tutti noi ma anche un luogo dello spirito che altri non hanno più. È la sede di una millenaria cultura dove trovare la forza di cambiare il presente.

Il fallimento dei modelli d’importazione è evidente. È la storia della “rinascita”, di una industrializzazione estranea ed assistita, ma è anche la storia delle banalità prese in prestito, di una falsa “modernizzazione” che ha prodotto la distruzione della nostra economia storica, lo spopolamento dei nostri paesi ed ha innescato un processo di devastazione del nostro ambiente naturale. Della nostra casa comune. Chi doveva, con entusiasmo, lavorare per la sua difesa e schierarsi ha invece pensato bene di tutelare le proprie poltrone, di invischiarsi negli estenuanti giochi del potere e del sottogoverno, ed incapace di cambiare se stesso, ha finito di perdere una faccia ormai compromessa da esperienze già vissute.

Eppure vi è ancora una grande base sociale che attende di scendere in campo. Essa è formata da tutti quei sardi che aspettano il partito che non c’é. Un partito che non c’è ma pure è vivo in tutte le vicende sarde. Un partito al quale si rivolgono, per esorcizzarlo, ogni giorno i partiti italiani. Questi lo carezzano, lo imboniscono, lo adescano perché non scenda in campo. Gli raccontano la bella fiaba dell’unità dei parlamentari sardi, della infinita “vertenza Sardegna”, la favola del voto di sovranità e dell’autonomia non realizzata, gli narrano storie perché resti bambino e non si svegli dai suoi sogni infantili. Gli danno caramelle perché non pianga e non cresca. È il grande timore degli schieramenti di centro sinistra e di centro destra. Perché senza mai essere presente nella scheda elettorale è il vero oggetto politico che ciascun partito ambirebbe possedere. Ma nessuno può impadronirsene perché è proprietà indivisibile di tutti i sardi. Qualcuno ha cercato di parlare in suo nome trasformando il bisogno dei sardi all’unità nazionale in misere alleanze elettoraliste di potere. Così per il Psd’Az che affogato nel suo autoritarismo, vanificata la sua identità sardista si è omologato al centrosinistra dei partiti italiani. Eppure il grande patrimonio sardista sopravvive a questa fine ingloriosa. Esso è il partito che non c’è, e la sua sede sta in ognuno di noi. Nel minatore che difende il suo lavoro, nel pastore e nel contadino che difendono la vita delle campagne, nell’intellettuale che cerca la sua storia e la sua lingua, nel giovane che odia una servitù che lo fà subalterno della disoccupazione.

Sardigna Natzione non crede di rappresentare tutto il sardismo né pretende di parlare in suo nome. Il nostro compito non è quello di essere il partito di tutti i sardi, ma di lavorare per costruire le condizioni perché questo possa sorgere. Noi gridiamo perché il partito che non c’é si svegli, si alzi in piedi ed occupi il campo.

ANGELO CARIA   Unione Sarda 25/11/95



La questione sarda e i parlamentari

Quel partito trasversale

Dal centro vicino alla sinistra e dal centro vicino alla destra vengono segnali che la Casa comune dei sardi è una costruzione che comincia a interessare. Paolo Maninchedda ne parla come partito autonomistico sardo, Mario Floris prospetta l’indipendenza dei partiti sardi e entrambi evocano una prospettiva catalana, un processo, cioè, di convergenza e di unione di partiti e movimenti intorno ai diritti e agli interessi collettivi, nazionali, dei sardi. Qualcuno, con l’aria trionfale di chi ha scoperto i più segreti meccanismi della fusione dell’atomo, proclama che la Sardegna non è la Catalogna. Constatazione che apre la strada a entusiasmanti giochi infantili: la Sardegna non è un cavallo a cinque zampe né un presepe bizantino. Ma per i sardi quello catalano potrebbe essere un modello da studiare né più né meno di come in Italia si studiano i modelli presidenziali francesi o americani e quelli federali tedeschi.

Ho la sensazione che i due poli maggiori si dividono quando si tratta di prospettare soluzioni per il governo dello Stato e hanno, invece, una singolare unità di vedute quando si tratta di affrontare la questione sarda. Unità non su tutto ma su alcuni grandi problemi. La divisione, quando c’è, è su concetti come l’autodeterminazion e la sovranità. Non è questione che opponga un polo all’altro, quanto internamente settori dello stesso polo che, così trovano alleati nell’altro: è quello che si chiama atteggiamento trasversale. Per cui mi è capitato di prospettare questa problematica a candidati e uomini di schieramento e di trovare in sintonia da una parte rappresentanti di Alleanza Nazionale, del Pds e del Partito Popolare e dall’altra del Pds, di Sardigna Natzione, del CCD e, del Psd’az e dei Pannelliani. Forse è anche giusto affermare, come mi è stato fatto, che gli eletti al Parlamento italiano non si possono sostituire al sistema dell’autonomia né ad esso sovrapporsi. E che è improponibile realizzare in Parlamento un modello catalano che non esista nella società sarda, dove spesso le divisioni derivano da esigenze di “visibilità” quando non di di personalismi. Non si può dargli torto, soprattutto quando oggi assisti alla nascita di un nuovo movimento, quello nazionalista sardo, che non va tanto ad occupare uno spazio lasciato vuoto quanto a tentare di coalizzare sottilissimi e incomprensibili distinguo ideologici. Questo non toglie che la contiguità con problemi, diciamo così, alti, non debba indurre i parlamentari sardi a sperimentare la strada dell’unità (o anche della divisione) per un atteggiamento comune, non di schierimento predeterminato, anche nel voto al Governo nacente. Un’eresia? Forse lo sarebbe per parlamentari che rispondano più a interessi esterni che a quelli interni di coloro che gli hanno mandati a rappresentarli; non lo è certamente per quanti decidessero di contrattare con il governo soluzioni speciali per la specialità sarda. Per dirne una, da quel che si legge nel governo Prodi siederanno sia l’attuale primo ministro Dini sia l’attuale ministro della Pubblica Istruzione Lombardi, l’uno e l’altro responsabili della chiusura nelle scuole sarde di altre 400 classi. L’Unione ha parlato così a lungo degli effetti devastanti per la nostra civiltà che avrebbe questa morte perché valga la pena di insistervi. Ebbene, è mai possibile che il voto dei nostri parlamentari per un governo che comprenda queste persone sia indipendente da un patto politico e sociale che preveda la scongiura di un tale disastro?

Gianfranco Pintore 

Unione


La casa comune dei sardi

Ma serve davvero la Repubblica dei fichi d’India?

In due distinti interventi Bustianu Cumpostu e Lorenzo Palermo, avanzano una medesima proposta: quella di una Consulta dei sardi o di un Assemblea permanente del popolo sardo. Devo essere sincero: mi sfugge di cosa si possa trattare. Perché se si intende alludere ad una assemblea eletta dai sardi, in modo proporzionale, incaricata di legiferare con autonomia e di governare la Sardegna, bene, allora vorrei indicare al segretario nazionale del partito Sardo d’Azione che quell’assemblea già esiste. Addirittura esiste anche quel «luogo fisico» di cui Lorenzo Palermo vagheggia: si chiama Consiglio Regionale della Sardegna e lo si può indicare a Cagliari, nella via Roma, in un avveniristico edificio bianco.

Quanto al secondo desiderio, quello di vedere lì «i sardi lavorare in pace per la loro libertà», me ne dolgo, ma – perlomeno nell’immediato – pare meno realizzabile, considerando che la maggioranza di quei rappresentanti dei sardi, democraticamente eletti, lavora poco e governa assai meno. Ma questo è noto, sia ai sardi che conoscono l’attivismo di questa Giunta, sia a chi guida un partito che concorre a governare l’isola.

Potrebbe, però, essere che non avessi ben compreso lo spirito ben più nobile delle proposte sardiste. In questo caso l’idea di Palermo e Cumpostu parrebbe consistere in un’Assemblea non elettiva, ma volontaria e unita dal vincolo della sardità: ne farebbero parte i «migliori uomini della Sardegna», affratellati dall’afflato magico della stirpe.

Tralascio l’ironia – della quale mi scuso – per chiedere più seriamente ai due maggiori leaders sardisti di quale federalismo si tratti nei progetti delle rispettive formazioni politiche. Nei paesi di cultura anglosassone la sezione preliminare di ogni trattato scientifico o dei dispositivi delle norme di legge è dedicata alle precisazioni terminologiche, aspetti formali pur se direttamente riconducibili alla sostanza dei problemi.

Bisogna, insomma, intendersi: il Partito Sardo e Sardigna Natzione desiderano la stessa cosa, e cioè una repubblica sarda che provveda ad una sua legislazione in materia penale, amministrativa e civile? Oppure agognano che la Sardegna possa vedersi riconosciute – compiutamente – dallo Stato le sue specificità ed una Autonomia reale ed efficace? Ovvero si intende parlare dell’esigenza complessiva di un decentramento, con l’attribuzione alle Regioni di poteri ora di esclusiva competenza del Governo di Roma?

Sono molti i fattori di cui una seria ed articolata discussione deve tenere conto, perché, tra l’altro, tra la specificità della Sardegna di cui è doveroso tenere conto, v’è anche un sottosviluppo economico e produttivo che non mi pare ci consentirebbe di camminare saldamente sulle nostre gambe. Si rischierebbe – se mi si consente – di creare una Casa comune, ma inutile dei sardi.

Per la Sardegna – per ora – sarebbe sufficiente una Giunta regionale che faccia valere il suo lavoro e ricordi al Governo della Repubblica di avere uno Statuto speciale. Serve lavoro, servono incentivi alle imprese, serve spendere i fondi che l’Unione Europea dedica alle Regioni svantaggiate come la nostra. Serve meno – a mio modestissimo avviso – creare una Repubblica dei Fichi d’India, materia di cui siamo veramente ricchi.

* Consigliere regionale di Forza Italia
Unione sarda 01-07-96


RISPOSTA A PIETRO PITTALIS DI F.I.   
LA CASA COMUNE DEI SARDI

L’intervento di Pietro Pittalis, consigliere regionale di F.I. sulla Casa Comune merita qualche osservazione sia sui contenuti che sui toni.

Senza riferimenti a persone singole ma a categorie politiche e culturali intervengo con piacere sull’argomento.

Quando un popolo colonizza un’altro popolo oltre che distruggerne la cultura, la lingua, l’economia e rapinarne le risorse si premura di costruire una classe intermediaria, comporadora, con il compito di cantare le lodi del padrone, la sua prodigalità ed il suo paternalismo e di evidenziare quanto sarebbe misero il vivere del colonizzato senza la disinteressata benevolenza del colonizzatore.

All’interno di una nazione negata, ognuno ha un suo ruolo, c’è chi sceglie di lottare per la sovranità del proprio popolo sulla propria terra e chi sceglie di essere organico alla sudditanza nei confronti del dominatore di turno.

La casa comune dei sardi è il punto d’incontro di quei sardi che hanno scelto, pur con diverse motivazioni e per diverse soluzioni, il primo schieramento, non riguarda e non può interessare chi continua a far credere che la questione sarda sia risolvibile togliendo al potere la maschera dell’ulivo e facendole indossare quella del polo.

La Casa Comune, non è il palazzone di via Roma, come dice Pittalis e non ha niente a che vedere con l’attuale consiglio regionale, che in quanto organico ai partiti italiani è solo la casa comune degli intermediari. La Casa Comune è alternativa ad esso e vuole essere lo strumento per creare le condizioni per l’autogoverno e la sovranità  del popolo sardo.

In quanto a Sardigna Natzione, la sua scelta è chiara, siamo per l’indipendenza della nazione sarda, siamo convinti che non si possa parlare di federalismo se prima tutti gli stati membri non hanno conseguito la piena sovranità sulle proprie scelte.

Altro che repubblica dei ficchi d’india, caro Pietro Pittalis, abbiamo la pretesa di proporre all’Italia e all’Europa l’unico modello di società possibile, se si vuole aggregare  e non dividere i popoli.

La soluzione che tu proponi, alternanza tra Ulivo e Polo, i sardi l’hanno già subita è vecchia e disastrosa, non è altro che la riproposizione del vecchio gioco tra centrosinistra  e centrodestra.

La vera proposta politica nuova è la Casa Comune che vuole essere costruita da quei “migliori” sardi che hanno avuto il coraggio di affrancarsi dalla partitocrazia italiana e proporsi alla guida del proprio popolo per dargli l’opportunità di dimostrare  che la nazione sarda ha risorse culturali ed economiche sufficienti per vivere senza elemosine e per presentarsi in Europa e nel Mondo con dignità e soggettività proprie.

L’Handicap del sottosviluppo economico e produttivo, che secondo Pittalis, ci impedirebbe di camminare con le nostre gambe è unicamente frutto della politica che lui propone non di quella dell’ autogoverno dei sardi proposto dalla Casa Comune.

Se c’è qualcosa di inutile quindi non è certo la Casa Comune ma la vecchia politica della finta alternanza che non solo ha impoverito i sardi ma li ha anche privati della loro dignità convincendoli di essere una massa di assistiti non in grado di assicurare la propria sopravvivenza.

In quanto all’ironia del Pittalis, sulla nobiltà delle proposte sardiste e sull’afflato magico della stirpe rientra nei luoghi comuni utilizzati da chi non si sente all’altezza di riconoscere i problemi reali e cerca di eluderli riducendoli sul piano del ridicolo e dell’ironia.

Se Pittalis vuole proporre ai sardisti la nobiltà e l’afflato magico che anima i componenti di Forza Italia, faccia pure ma prima ci spieghi se il tono è ironico o meno.

La nostra isola purtroppo non è solo ricca di ficchi d’India ma anche di politici che non sanno essere organici al loro popolo e mentre i primi si possono esportare i secondi purtroppo no .

Bustianu Cumpostu
Coordinatore Nazionale

SARDINIA NATZIONE: No all’accordo Stato-Regione

È uno scippo contro la sovranità dei sardi