DI SARDIGNA NATZIONE INDIPENDENTZIA
( Commissione economica )
La Realtà Sarda e il panorama globale
PREMESSA
Questo breve prospetto di idea economica, ricerca una linea operativa che agendo all’interno del rispetto dei diritti umani e della lotta non violenta, sperimenta iniziative che affrancano la Sardegna dalla dipendenza economica creata dallo stato colonizzatore per garantirsi il controllo sociale.
Se si mira all’indipendenza devono essere rifiutate tutte le ipotesi di gestione o di sviluppo economico, che si adeguano alla sottomissione nelle condizioni date dallo stato colonizzatore, questo ruolo, svolto dai partiti italianisti coerentemente alla loro caratteristica di subordinazione a interessi non sardi, gli indipendentisti non possono accettarlo. In questa elaborazione si individuano nuovi possibili percorsi di sviluppo economico da sperimentare in progetti, seguendo una logica nuova, basata sulla consapevolezza di popolo, presente e da maturare, propedeutica alla equa distribuzione della ricchezza, a una partecipazione popolare e alla conservazione della ricchezza collettiva nazionale. Per tanto, la proposta può apparire inconsueta e anomala, ma si tenga presente, che non si tratta di una ipotesi di “finanziaria alternativa”, ma di una azione di lotta per insediare presidi economici, su cui basare una struttura che si affranchi dal giogo colonialista e metta le basi per una economia indipendente la cui sovranità sia nelle mani del popolo sardo.
LA REALTA’ SARDA E IL PANORAMA GLOBALE
La Sardegna, oggi è una nazione senza struttura economica e come tutte le realtà soggette a sottomissione coloniale subisce uno sfruttamento indiscriminato delle proprie risorse, senza che venga attuato nessun sistema propedeutico al rinnovo, le stesse vanno naturalmente ad esaurirsi impoverendo il territorio e le popolazioni che lì abitano. Questa metodologia economica, tende a cannibalizzare qualsiasi altra forma di sviluppo si provi ad attuare, origina diseconomia e osserva una logica rigida, legata al protezionismo generato dai potentati politico – economici, che in un meccanismo di auto perpetuazione, si sostengono vicendevolmente, per frenare ed escludere dal panorama produttivo gli innovatori, che con la forza di nuove idee conquisterebbero il mercato. Senza protezionismo, le vecchie entità, non più competitive, deboli, impoverite di risorse intellettuali per innovare l’economia e il panorama sociale e politico, sparirebbero naturalmente.
Tutte le iniziative economiche e industriali, riferite a presunte politiche per lo sviluppo della Sardegna, non hanno mai avuto davvero lo scopo di attivare una evoluzione positiva, quanto invece, destabilizzare delle società con una propria identità e propulsione evolutiva, per riplasmarle a piacimento del potere coloniale. La nuova strategia colonialista del dopoguerra, non più apertamente oppressiva, ma subdolamente paternalista, anziché dotare i protagonisti dell’economia di strumenti tecnici e culturali, utili ad ammodernare e ulteriormente sviluppare le eccellenze già espresse localmente, ha operato per cancellare ogni forma economica legata alla vocazione del territorio e alla cultura produttiva generata dalla creatività e dall’inventiva delle popolazioni locali. Il tentativo di “disidentificare” le genti dal proprio territorio, in parte riuscito, ha sia trasformato il modo d’intendere l’economia, corrompendo il concetto di bene collettivo degli oggetti economici riducendoli a sterili merci di consumo, che eroso il tessuto produttivo secolare, il quale aggiornato e rinnovato poteva e può essere un’industria vivace, in grado di creare benessere diffuso utile al territorio per rigenerarsi, senza esaurire lo stock di materia prima rinnovabile, su cui basare il funzionamento industriale sostenibile.
LA TRAPPOLA DELLA NON-CULTURA COLONIALISTA
In una società colonizzata, la scuola non serve a educare e istruire, ma ad indottrinare e addestrare. In una economia coloniale, la conoscenza è un aspetto inutile, la consapevolezza dei propri mezzi un elemento pericoloso, così come lo sarebbe una scuola libera e efficiente. Avere cittadini non consapevoli, non formati adeguatamente dalla scuola, è un aspetto che torna molto utile ad un paese colonizzatore. Una controparte refrattaria a qualsiasi proposta, incapace di analizzare responsabilmente le situazioni e proporre alternative vincenti, che antepone alla subdola finta modernizzazione percepita dalla gran massa come vero sviluppo, un modello di austero ritorno ai bei tempi che furono, rinuncia alle opportunità che la tecnologia offre ed è facilmente sovrastabile. Quando si propongono soluzioni basate sulla rinuncia, anche all’economia di mercato, si cade in contraddizione, perché la maggior parte delle persone non le accetta e diventa impossibile il raggiungimento delle stesse con metodi democratici. Esistono molteplici possibilità di sviluppo. La tendenza di un paese “colonizzatore” sarà quello di sfruttare indiscriminatamente tutte le risorse fino all’esaurimento, mantenendo le popolazioni colonizzate nella convinzione di vivere in una realtà povera e disgraziata, che senza il collegamento col “colonizzatore” sarebbe destinata alla desolazione. Una popolazione che voglia veramente affrancarsi dalla sottomissione coloniale, deve principalmente appropriarsi della capacità di produrre, preservando la rigenerabilità delle risorse fondamentali legate al territorio.
MERCATO POLITICA DEMOCRAZIA
Politica, mercato e società sono indissolubilmente interconnessi e non si può agire su uno di questi aspetti, senza avere ricadute negli altri. Bisogna agire sempre pensando ad un sistema complesso e non per compartimenti stagni, come avviene nella distruttiva lotta tra finanza e politica, per sancire la supremazia dell’uno nei confronti dell’altro.
Il mercato (economia di mercato), deve essere compatibile col sistema sociale che lo adotta, riplasmare una società alle esigenze di un “meccanismo mercantile”, è come sottomettere le persone alle macchine.
Il sistema economico deve avere come primo requisito quello di incentivare l’evoluzione democratica della società. La democrazia, oltre ad essere “regime politico” è un valore, il mercato è un mezzo, che dà migliori risultati e positiva ricaduta sociale quanto migliore è il sistema democratico. In un buon sistema democratico, mercato e politica sono complementari; la politica, dotando di regole il mercato, provvede a distinguere le merci dai beni comuni, in modo che non possano essere mercificati i bisogni primari delle persone; il mercato, agendo in uno spazio autonomo, all’interno di regole ponderate, evita che la politica degeneri in partitocrazia, che accentra il potere per attuare un controllo sociale, usa le risorse pubbliche in maniera clientelare per ottenere consenso, trasforma gli amministratori in gruppi di potere che si auto perpetuano.
Un regime democratico, per essere compiuto, ha bisogno di una partecipazione alta numericamente e qualitativamente al controllo del sistema. Le decisioni devono essere prese a livello locale, pensando a un panorama d’interscambio in cui i paesi vicini si organizzano in reti di collaborazione, creando livelli nazionali (intesi in senso bioregionale), si propongono nelle realtà internazionali. In questo senso è possibile configurare una politica economica indipendentista. Partire dal locale, impone la fine di ogni colonialismo, investire sul territorio per educare chi lo abita a trarne benessere, significa sia diffondere il benessere, che godere del progresso che altri riescono a creare non per concessione o elemosina ma in virtù di rapporti tra popoli, che attuano interscambi paritari. Un disegno socio economico così costituito, è in rottura netta verso la situazione imposta dal potere finanziario, che ha prevalso in modo debordante sulla politica, riducendola al ruolo di ratifica delle decisioni imposte dalla finanza globalizzata.
ANALISI DELLE STRATEGIE DEL POTERE
Bisogna valutare realisticamente come opporsi a un potere che è riuscito a mettere sotto scacco governi di paesi ricchi e fortemente strutturati, potenzialmente inattaccabili analizzando come la finanza globalizzata si è mossa in questi anni per acquisire così tanto potere. Il potere finanziario ha allacciato relazioni con tutti i punti dove si concentra il potere politico, instaurando rapporti personali con capi di stato, elargendogli forti sostegni prevalentemente economici, per consolidare attraverso loro, il controllo sul potere politico, con promesse di trattamenti di riguardo anche per gli stati da loro amministrati. Dopo aver raggiunto una cresciuta disponibilità economica, grazie ai privilegi dati dalla politica, la finanza ha esteso il suo influsso su televisioni, giornali, e altri mezzi di comunicazione per imporre la linea editoriale più utile a un ulteriore aumento del proprio potere sulla politica stessa. Il controllo dei media, ha portato la finanza a influire sugli elettori fino a determinarne il passaggio dell’arbitrio della competizione politica per la scelta della composizione dei governi, dai votanti dei diversi territori nazionali a una ristretta cerchia di finanzieri, coalizzati con lo scopo di globalizzare il potere economico e portarlo stabilmente sopra quello politico. A questo punto la finanza ha imposto ai governi spregiudicate manovre speculative, pur consapevole di innescare l’effetto domino che ha provocato la crisi dell’occidente, causando il crollo dell’economia in quelli più corrotti, quindi più esposti, e coinvolto più o meno pesantemente quelli comunque collusi col sistema. Perseguendo l’obiettivo di estendere il proprio predominio sui paesi che resistono alla speculazione, il potere finanziario non si è posto limiti etici, con una manovra speculativa si deve a tutti i costi riuscire a realizzare guadagni incalcolabili nel volgere di poche ore. I guadagni realizzati dal potere globalizzato, ovviamente devono essere compensati dagli Stati che hanno subito le perdite, altrimenti, non possono agire nel mercato internazionale per mancanza di moneta, la quale, come si sa, è gestita dal potere piramidale delle banche, che in occidente sono tutte di proprietà privata. Saranno quindi le banche a fornire soldi ai governi attraverso la vendita di titoli di stato i cui interessi aumentano a seconda della solvibilità degli stati, decisa da organismi legati alle banche stesse. Il quadro che si configura, è che le banche, globalizzate e governate da una ristretta cerchia, hanno acquisito il potere di determinare le sorti economiche di molti stati e influenzare pesantemente quelli più strutturati, attraverso le indicazioni date da istituti economici, loro emanazioni, che creano turbolenze finanziare nei vari paesi in modo da poterli indebolire e sottoporli ad un attacco speculativo.
Sta emergendo sempre più chiaramente che, come gli stati compensano le perdite economiche prodotte da questa situazione, si abbassa progressivamente il livello di redistribuzione della ricchezza rappresentata dallo stato sociale (diminuzione pensioni, sistema sanitario, assistenza, investimenti per ricerca, sviluppo e istruzione). La finanza, subordinandosi il potere politico, ha ingessato anche il mercato e ha bisogno di enormi risorse economiche per mantenere il meccanismo di influenza che le consente di concentrare il potere bloccando il sistema democratico.
LA DISECONOMIA DEL SISTEMA COLONIALISTA
Il caso del controllo attuato sull’informazione è illuminante sul meccanismo generalizzato con cui si gestiscono tutti i settori. L’operazione ha necessità di un centro di comando verticistico su cui agire, in questo caso, i direttori dei giornali. Usando tutta la propria influenza, economica, politica e corruttiva, la cupola finanziaria, ha estromesso professionisti prestigiosi dalla direzione dei giornali, quelli che riuscivano ad interpretare criticamente le tensioni sociali sia in positivo che nei loro aspetti negativi, sono stati sostituiti da redattori di parte col compito di propinare una realtà falsa, utile a portare consenso all’apparato economico di potere di riferimento. I giornali ovviamente hanno perso il gradimento di gran parte dei lettori e con essi buona parte delle vendite e introiti pubblicitari. Le perdite economiche non hanno portato a rivedere le strategie editoriali, ma, considerate come spese funzionali al meccanismo di gestione del potere, sono ripianate dall’apparato speculativo – economico, che ha un bisogno sempre crescente di soldi, perché con l’espandersi, il potere finanziario favorisce il radicarsi della speculazione, che amplifica la diseconomia e conseguenti conti in perdita da sostenere.
Anche la politica partitocratica, assoggettata alla finanza, rafforza il controllo sociale e attraverso il pilotaggio dell’economia, esercitato soffocando il libero mercato, contribuisce a strozzare le libertà democratiche dei popoli e degli individui. Tutti i settori dello stato sono in perdita, perché gestiti da logiche clientelari. In ogni ambito, il potere deve bloccare la libertà di sviluppo delle nuove proposte, per evitare che si possano formare realtà in grado di competere e facilmente superare nel gradimento dei mercati prodotti frutto di una realtà corrotta e quindi di infima qualità.
Le banche, non possono essere dirette da abili banchieri, che cercano di legare i propri affari alle imprese o singoli nel mercato libero, ma da funzionari servili, che assicurano “favoritismi funzionali” al mantenimento del sistema.
Settori importantissimi di spesa pubblica, come sanità, trasporti, lavori pubblici, reti idriche, istruzione, anche andando in perdita, non possono essere gestiti con criteri di buona amministrazione, ma, trasformati da diritti in merci, servono a procurare guadagni sicuri senza rischi o particolari investimenti, alterando ulteriormente la libera concorrenza di mercato.
Tutto l’apparato di gestione “architettato dalla cupola finanziaria”, dagli impiegati ai superpagati manager, che normalmente portano a disastri finanziari le aziende gestite con logiche clientelari di lottizzazione, serve ad assicurare ai propri referenti guadagni facili e enormi, indispensabili al mantenimento della piramide di potere, al cui vertice, manovrano i capi della finanza globalizzata.
IL NUOVO VOLTO DEL COLONIALISMO
I partiti, connotati nelle forme organizzative strutturatesi nel ventesimo secolo, diventate autoreferenziali, non sono più in grado di proporre uno sviluppo sociale equilibrato; il sistema finanziario, ha ormai sopraffatto la politica e viziato il mercato, che, ormai senza le regole che ne permettono il libero svilupparsi, non riesce a svolgere il ruolo di controbilanciare il potere politico ormai enormemente partitocratico. Il sistema democratico, privato di due fondamentale strumenti per il proprio regolare funzionamento, come partiti politici e mercato, è sacrificato all’altare della finanza. L’economia statale, senza un mercato veramente libero, entra inesorabilmente e pesantemente in crisi generando perdite economiche per tutte le entità esterne alla cupola finanziaria. L’unico modo per ripianare le perdite economiche è risparmiare su quei servizi, che costosamente pagati dai cittadini, non possono essere erogati per destinare risorse al mantenimento del sistema che oltre a impoverire la società, limita le libertà democratiche. Uno dei criteri fondamentali per il funzionamento del sistema di potere, è un sistema politico verticistico all’estremo, dove pochi uomini attraverso un ristretto numero di politici controllati e controllabili, tengano fermamente il comando del potere.
Qualsiasi organizzazione che la società esprime deve essere inglobata dal potere diventandone anche strumento, altrimenti sarà soffocata dal sistema; ogni iniziativa economica alternativa, che voglia affrancarsi dalla cupola, deve allo stesso tempo, coesistere e combattere il colonialismo.
Questo è il metodo semplice ed estremamente efficace con cui il capitalismo globalizzato moderno impone la propria egemonia, non solo di uno stato su una nazione, ma, datosi potere sovrastatale, dopo aver sradicato le solide basi della democrazia partecipata dal territorio, ha trasformato la politica in una evanescente organizzazione liquida. Il colonialismo, si è in questo modo messo in contrapposizione al sistema democratico con cui è assolutamente incompatibile. Il sistema coloniale contemporaneo quindi si esercita attraverso la finanza globalizzata; basterebbe essere funzionale a questo sistema per avviare un percorso di indipendenza e riconoscimento statuale, ma sarebbe vera indipendenza o una sottomissione ancora più rigida e pericolosa? Cosa dimostrata dalle crisi e dai fallimenti degli stati più compromessi col potere finanziario, in primis verso il Fondo Monetario Internazionale. Gli esempi si perdono: dall’Africa, quasi completamente indebitata, i cui stati, amministrati da governi fantoccio, sono stritolati dall’immenso debito, alla Grecia, all’Irlanda, all’Argentina; il sistema coloniale moderno ha colpito dimostrando come per uscire dalla morsa occorrono terribili sacrifici anche di vite umane stroncate dalla criminalità organizzata che in quella situazione trova una situazione ideale per svilupparsi, o dalla miseria conseguente alla rapina di tutte le risorse statali. I capostipite dell’operazione sono alcuni stati che hanno barattato l’economia della produzione di beni materiali con l’economia liquida della speculazione finanziaria.
Il pensiero indipendentista vuole avviare dal basso l’organizzazione sociale, unica via per affrancarsi dalla piramide del potere.
INDIPENDENTISMO UNICA ALTERNATIVA DI POLITICA ECONOMICA
ll sistema colonialista globalizzato è organizzato in modo da attuare un controllo verticistico, che non s’interessa delle ricadute della propria azione speculativa nel territorio, ma mira unicamente a drenare risorse economiche per consolidare il proprio potere e garantirsi lo sfruttamento dei beni nel più lungo periodo possibile, per questo è incompatibile con l’indipendentismo. Il bene principale di un popolo e della sua nazione è la terra, su questo elemento materiale si gioca la partita della sussistenza economica e la sua indipendenza, prenderne il possesso e non garantire che i suoi beni possano rinnovarsi continuamente, significa destinare il suo popolo ad un intercalare di povertà, di nuova schiavitù. La sfida economica è stata trasformata dalla finanza colonialista, in una guerra che deve essere vinta a costo di qualsiasi sacrificio ambientale e umano. Una guerra isterica senza fine, dove quotidianamente si verificano nuovi attacchi di gruppi che aprono un nuovo fronte speculativo appena percepiscono un punto debole nel panorama economico, cercando di guadagnare forza e dare l’assalto al potere. L’indipendentismo essendo strettamente legato al territorio, mette in primo piano la conservazione dello stesso, non in un immobilismo dogmatico, ma lavorando in un rapporto dinamico con l’ambiente considerandolo il principale “stock di capitale economico” assolutamente non erodibile o consumabile e tanto meno cedibile. Questo significa considerare l’ambiente risorsa per le esigenze economiche, consapevoli che ogni minima parte di terra deturpata è capitale dilapidato e impoverimento nel presente e per il futuro . Se si dovesse pensare alla produttività dell’ambiente in un rapporto temporale, si può ipotizzare, grossomodo, di consumarne il 15% nell’immediato, che corrisponde circa alla percentuale che nello stesso arco temporale si rigenera. Uno sfruttamento così ridotto della terra è perfettamente compatibile con le esigenze alimentari ed energetiche che la società contemporanea richiede per gli usi civili e industriali; è la speculazione globale che può esistere solo basando i suoi guadagni su una smisurata crescita dei consumi.
La stragrande maggioranza dei prodotti, viaggiando per il mondo si deteriorano, rimangono invenduti, vengono distrutti per evitare il crollo dei prezzi o per totale mancanza di richiesta nel mercato, per la finanza comunque è un guadagno, perché ha incassato dalla vendita di beni consumati inutilmente, dall’energia, dalle sementi, dalle macchine, dai carburanti, dai trasporti, dai servizi, dalle intermediazioni e da quant’altro fa parte della catena speculativa. Evitare queste perdite significa ridurre drasticamente il dilapidare risorse e la distruzione del territorio. Ma come è possibile che un chilogrammo di carne di manzo o di frutta prodotta dall’altra parte del mondo, sorvolando sulla qualità scadentissima e le complicazioni sulla salubrità che meriterebbero un’analisi specifica, concentrandosi solo sulle spese di produzione, di trasporto, di commercializzazione, di stoccaggio, di vendita, costi al consumatore finale molto meno di quanto possa calcolarsi la somma di tutti i suoi passaggi? Anche qui è semplice, la differenza viene in buona parte dall’erosione dello stock ambientale, con metodi di produzione che compromettono irreversibilmente la fertilità della terra per produrre a basso costo, il resto, coperto con l’indebitamento del governo del paese sottomesso a colonialismo. Stati sempre più poveri e indebitati, quindi, maggiormente ricattabili dal creditore, che ancora più forte, intensifica la speculazione rendendoli ancora più sottomessi, non in grado di difendere la propria terra, la quale è usata come uno strumento da consumare.
In una visione economica indipendentista, il territorio, la terra, usando la tecnologia più utile alla migliore produzione col minimo impatto ambientale, producendo molto meno dell’attuale, prodotti di altissima qualità e di salubrità certificata, è in grado di mettere a disposizione alimenti per soddisfare ampiamente le necessità e il mercato locali. Non solo, trattandosi di prodotti di alta qualità e specifici perché dotati di caratteristiche uniche in virtù del territorio e delle tecniche di produzione troverebbero facile collocazione nell’esportazione di qualità a prezzi adeguati alle esigenze produttive.
POPOLO E TERRA PER UNA ECONOMIA DI BENESSERE
Esempi industriali come le miniere, da millenni presenti in Sardegna, hanno dato vita ad una cultura e una società mineraria interessante accademicamente, ingegneristicamente, geologicamente e meccanicamente, che ha favorito lo sviluppo della ricerca, dei servizi, dell’assistenza, tutto questo oggi è parte del patrimonio culturale sardo da valorizzare. Stesso approccio va riservato alla pastorizia, che ha fato nascere il pastoralismo, ma anche caseifici, veterinari, agronomi, biologi e una costellazione di servizi correlati. Per questo progetto è fondamentale che la scuola, presente in ogni parte dell’isola, studi ogni piccola realtà in cui opera svolgendo ricerche in campo umanistico, tecnologico, scientifico o altro e ne faccia conoscere ricchezza culturale e potenzialità produttive a chi lì vive e abita. Una delle distorsioni più atroci che la globalizzazione finanziaria ha voluto, è lo scollamento delle persone dal proprio territorio provocando lo spopolamento di moltissimi paesi e l’abbandono della terra, ormai svilita, invasa indiscriminatamente da torri eoliche e impianti fotovoltaici. Bloccare questo percorso è vitale per la Sardegna, come lo è basare il proprio rilancio economico sul territorio e i paesi che oggi si spopolano. La produzione per le esigenze alimentari della popolazione deve essere prevalentemente fatta nell’isola, in particolare nelle zone interne, la parte importata, deve essere compensata da esportazioni, questo è possibile attraverso la creazione di cooperative costituite da consumatori e produttori che organizzano la filiera produttiva e distributiva, praticando una concorrenza vincente verso le grandi strutture di commercializzazione, dietro i quali agisce la grande speculazione che incamera danaro destinato poi ad altri stati, distribuendo merci estere insalubri o prodotte violando la terra e i diritti delle persone che li lavorano e vivono, ricattando e stritolando qualsiasi produzione si affacci sul mercato locale. I partiti italianisti, tutti, hanno sponsorizzato queste strutture, perché nel locale, permettono di replicare l’organizzazione di potere per il controllo sociale funzionante globalmente. La terra sarda dispone in potenza di materia prima in una molteplicità di settori, l’agricoltura, l’estrazione lapidea, il turismo, l’artigianato tipico che va dall’intaglio del legno, alla cestineria, alla ceramica, alla tessitura, alla gestione dell’immenso e unico patrimonio storico archeologico della Sardegna, la conoscenza della propria storia, cultura, tradizione, lingua, tecniche artigianali, sono un patrimonio di consapevolezza su cui basare un’industria vincente, particolare e unica, ma sopratutto che vive, cresce e si trasforma col suo popolo, per questo inimitabile. Ogni fenomeno si manifesti in un territorio è una risorsa da conoscere, sviluppare, far crescere; un’economia sana non può essere monotematica, per mantenere un equilibrio fra il consumo di risorse e il loro necessario rigenerarsi, la diversificazione produttiva è un’esigenza.
Alla base di una economia vincente c’è prima di tutto un popolo che si appropria della sua terra e in quella terra insedia gli strumenti per la sua sussistenza. Il primo strumento di cui i sardi devono dotarsi, è la capacità di produrre senza deturpare il proprio ambiente, la principale produzione da avviare è quella energetica, essere all’avanguardia in questo ambito significa porre le basi per essere competitivi in qualsiasi altro settore. Per millenni fino a pochi secoli addietro, la Sardegna era coperta di boschi distrutti dagli invasori piemontesi per far cassa dal legno, quel patrimonio deve essere ripristinato, perché indispensabile per la ripresa economica delle aree in via di spopolamento. Il legno è per il futuro una delle principali fonti di materia prima per l’edilizia e la produzione energetica da fonti rinnovabili economicamente sostenibili. Una imponente azione di ripristino forestale è il primo passo per impiantare con criteri moderni e scientifici una industria di coltivazione del bosco per la produzione di legno che alimenti le esigenze dell’industria edile, del mobilificio artigianale, della produzione d’energia, in un collegato di filiera che in sinergia rende competitivi tutti i settori. In particolare l’energia è un punto d’importanza fondamentale. La quantità di energia, indispensabile per gli usi civili e industriali, attualmente richiede l’utilizzo di combustibili fossili non rigenerabili, è indispensabile che i combustibili siano in futuro quelli meno inquinanti e più economici, ma sopratutto è fondamentale che da subito la Sardegna avii un progetto per lo sviluppo massiccio di tutte le fonti rinnovabili di cui può disporre, sole e vento tenendo presente dell’impatto ambientale che il loro sfruttamento può comportare, ma, sopratutto alberi che sono in potenza la più grande risorsa industriale della Sardegna con cui ridurre la dipendenza energetica da fonti fossili.
AVERE LA PROPRIA TERRA E’ INDIPENDENZA
Tutti i settori strategici per lo sviluppo economico della Sardegna sono controllati da multinazionali, con l’appoggio determinante della partitocrazia italiana, i trasporti marittimi e ferroviari, dopo un’azione di smantellamento, sono tenuti in una condizione di arretratezza, in un regime di cartello monopolistico, insieme a quelli aerei arrecano enormi danni all’economia sarda che non riesce a vincere il protezionismo voluto dall’Italia.
Il sistema partitocratico italiano, succube e funzionale alla più arrogante finanza multinazionale, saccheggia la Sardegna con la complicità di coloro che a quella politica si appoggiano e se ne fanno rappresentanti per approfittare del sistema che può portarli a piccoli ruoli nella catena di comando.Tutto nella nostra realtà colonizzata è dentro questo sistema; per funzionare il meccanismo ha bisogno di prendere il controllo della terra, dove insediare porti aeroporti, ferrovie, togliendola dalla disponibilità delle entità locali col ricatto della disoccupazione e dell’impoverimento creato ad arte. Bisogna pertanto dare impulso localmente a meccanismi popolari di gestione diretta in tutti i settori, questo è possibile a qualsiasi livello.
Il disegno economico e sociale dell’indipendentismo oltre a essere per sua natura antitetico e alternativo alla logica colonialista, è anche l’azione più efficace per affrancarsi dallo sfruttamento economico e difendersi dalla distruzione culturale e ambientale che la sottomissione comporta. L’alternativa all’oppressione colonialedeve essere costruita localmente, dappertutto l’indipendentismo deve fare in modo che si formino libere strutture solidali di mutuo aiuto economico, basate sulla massima democrazia, per liberarsi dal controllo del danaro operato dalle banche. Le cooperative di risparmio popolare collettivo sono strumenti che hanno dato lusinghieri risultati dove il sistema produttivo è in sofferenza e sono esempi di buona economia da replicare.
Il popolo sardo avvalendosi di forme di economia democraticadeve prendere il controllo del territorio, senza delegare a nessuno la gestione della terra in cui vive.Coerentemente col principio anticolonialista le cooperative di mutuo credito, devono assolutamente sottostare ad un controllo popolare che impedisca la concentrazione di potere; devono accogliere chiunque, ma solo a condizione che ci si attenga ad un regolamento che esclude i meccanismi della speculazione multinazionale privilegiando l’economia solidale, come cooperative di consumo organizzate in rete tra produttori e consumatori. Queste entità economiche in una sorta di gemmazione danno impulso a ulteriori imprese economiche che nascono dalle esigenze e potenzialità dei territori. La sinergia prodotta da questa organizzazione, è in grado, collaborando con gli istituti preposti, anche di investire in ricerca che ricada positivamente e in modo collettivo sulla propria struttura organizzativa e produttiva. Alimentare la struttura associativa economica popolare significa avere in ogni parte dove presente, una base dove individuare e far crescere dei talenti in tutti i settori in cui si opera, economia, agricoltura, pastorizia, cultura; settori che possono esprimere intelligenze in grado di dare maggiore impulso alla riconquista della Sardegna da parte dei sardi.
L’azione economica deve essere spinta invadendo qualsiasi settore, in concorrenza con il metodo e la corrotta gestione statalista italiana, che deve essere messa in crisi; in questo modo, erodendo potere alla partitocrazia di stato, si deve restituire alla politica e al mercato il giusto ruolo in un sistema democratico compiuto. Una visione economica e sociale di questo tipo è anche una proposta di emancipazione, per questo, non appena percepirà la minaccia per la propria supremazia il potere colonialista userà tutti i metodi corruttivi e scaglierà con forza tutto il suo potere burocratico, mediatico, mettendo in atto anche azioni sleali per bloccare il processo di decolonizzazione, per questo è fondamentale che chiunque coinvolto, impresa o privato, sia indisponibile a convenire al seppur minimo compromesso con il potere partitocratico italiano. L’economia, deve essere conseguente a una visione di popolo responsabile e solidale al suo interno, consapevole che il benessere individuale, può essere difeso solo collettivamente. Con un tessuto economico sano alla propria base, si deve affrancare il popolo sardo dal ricatto colonialista. La strada per una trasformazione politica della nazione sarda secondo un disegno indipendentista, deve essere frutto di un progetto molto più largo di una visione economica, ma un popolo a cui col ricatto si può togliere di che vivere, non potrà mai autodeterminarsi. Avviare un percorso che possa rimettere le risorse della Sardegna nella disponibilità dei sardi è il primo passo per costruire un pezzo di sovranità che porti alla completa indipendenza politica della nazione sarda.
In questo scritto sono riportati concetti e riflessioni ottenute da letture dei seguenti autori
Edgar Morin – La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero – Editore Cortina
Edgar Morin – I sette saperi necessari All’educazione del futuro – Editore Cortina
Zygmunt Bauman – Amore Liquido – Editori Laterza
Jean-Paul Fitoussi, Eloi Laurent – La nuova ecologia politica – Editore Feltrinelli
Jean-Paul Fitoussi – Il dittatore benevolo. Saggio sul governo dell’Europa – Editore Il Mulino
Bachisio Bandinu – Pastoralismo in Sardegna. Cultura e identità di un popolo – Editore Zonza
Bachisio Bandinu – Pro S’indipendèntia – Editore Il Maestrale